Genetica ed Epigenetica dello Stress

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Quando l’individuo è sottoposto ad uno stress, nel suo cervello si verificano cambiamenti dei livelli di neurotrasmettitori e della struttura delle cellule. Anche sul piano comportamentale compaiono delle alterazioni, come ad esempio sintomi che possiamo definire ansiosi. Se lo stress finisce, questi ultimi col tempo scompaiono, e la persona ritorna al suo equilibrio. Tuttavia, anche quando l’individuo va incontro ad un recupero comportamentale, cioè apparentemente ha superato la condizione di stress, il cervello non è più lo stesso: studi mostrano che le cellule cerebrali continuano a presentare alterazioni dell’espressione dei geni.

Lo stress acuto, ma soprattutto quello cronico, provocano quindi variazioni persistenti dell’espressione genica attraverso vari meccanismi, uno dei quali è l’esposizione delle strutture cerebrali ai glucocorticoidi (cortisolo). Queste osservazioni derivano da studi sui cervelli dei roditori, che hanno anche dimostrato che uno stress acuto in un animale già sotto stress cronico, provoca variazioni dell’espressione genica diverse rispetto all’animale che non era sotto stress cronico. Si può ragionevolmente dire che lo stress cronico altera la reattività dell’individuo agli stress futuri, e lo fa attraverso varie vie, ad esempio aumentando in modo permanente il tono infiammatorio e la produzione di citochine.

Un altro fattore cruciale che può spiegare la continua evoluzione e la plasticità del cervello è l’epigenetica (cioè l’interazione, che avviene durante tutta la vita dell’individuo, tra i geni e i fattori che ne regolano l’espressione). Il patrimonio genetico si esprime in modo versatile, rispondendo a fattori “ambientali” quali ormoni, citochine, chemochine e altri neuromodulatori, e lo fa attraverso azioni complesse come la modificazione di istoni, la metilazione, le attività dell’RNA non codificante, le trasposizioni del DNA. Queste modificazioni “epigenetiche” sono persistenti e sono state ritrovate nelle cellule cerebrali dei roditori sottoposti a vari tipi di stress. Fattori legati all’epigenetica possono quindi spiegare la persistenza di comportamenti ansiosi nell’adulto che ha subito stress giovanili.

A tale proposito alcuni studi hanno suggerito che la capacità dell’adulto di rispondere in modo adattivo agli stress dipende anche dalle esperienze individuali infantili, che coinvolgerebbero un’alterazione della regolazione epigenetica. Fondamentali sembrano le esperienze negative legate alla cura parentale, che provocano un aumento del tono infiammatorio anche nella vita adulta.

Nelle classi sociali più basse sembrano importanti anche l’effetto dell’inquinamento, delle condizione abitative e sociali che comportano scarsa autoregolazione comportamentale ed obesità, deficit delle abilità linguistiche e della memoria (i cui correlati cerebrali sono: compromissione dello sviluppo del giro parasilviano, dei sistemi corticali prefrontali e temporali, ridotto volume ippocampale e del grigio prefrontale, aumento della reattività amigdaloidea alle facce arrabbiate e tristi- predittore di precoci malattie cardiovascolari). A sostegno di questa visione, vi sono studi che riportano che gemelli identici differiscono nei pattern di metilazione del DNA a causa di esperienze individuali e altri che trovano differenze tra individui geneticamente simili o identici nella lunghezza dei dendriti della corteccia prefrontale, nell’attività motoria e nel tasso di neurogenesi.

Fattori genetici interagiscono con l’ambiente durante tutta la vita, e non si torna indietro da ciascun stadio dello sviluppo, ma la buona notizia è che possono verificarsi nuove possibilità di natura epigenetica, che creano meccanismi compensatori. Così, durante tutta la vita c’è la possibilità di correggere le tendenze patologiche attraverso vari interventi. Nei modelli animali uno di questi è l’uso di ambienti arricchiti per rimediare agli effetti di una separazione precoce dalla madre. Altri interventi sono di natura farmacologica, comportamentale, interventi che coinvolgono attività integrate del SNC, la terapia cognitivo-comportamentale, l’attività fisica, il supporto e l’integrazione sociale, interventi di sviluppo di significato e scopo nella vita. L’attività fisica aumenta il volume dell’ippocampo, lo stesso fa l’apprendimento intensivo. La socializzazione migliora gli aspetti cognitivi rallentando il decadimento fisico e mentale e la terapia farmacologica per la depressione e il disturbo bipolare possono rimediare alla riduzione volumetrica dell’ippocampo nei disturbi dell’umore, anche se le evidenze non sono chiare.  L’azione positiva di fluoxetina nel recupero dello stroke suggerisce che il farmaco possa permettere la fattibilità e l’efficacia di interventi comportamentali; l’idea è di usare il farmaco come base su cui far agire interventi “top-down” come l’attività fisica, il supporto sociale, le terapie comportamentali, la mindfulness e la meditazione, e gli interventi sulla ricerca di scopi e di significato.

scritto da Alessandra Benedetti

tratto da McEwen, Gray, Nasca Recognizing resilience: Learning from the effects of stress on the brain. Neurobiology of stress, 1 (2015) 1-11

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